Friday, August 22, 2003
boston university (VI)
Post di Fabrizio Venerandi sul newsgroup alt.fan.fratellibros
Main topics: OT
Author: Fabrizio Venerandi
Mentre si camminava verso la sala mensa, il jonathan mi spiegò in breve
le regole principali della carambola birmana. "Ma hai detto che io non
devo giocare!" protestai, e jonathan si offese, disse non c'entrava
niente, che non mi avrebbe certo fatto male fare due partite a carambola
birmana, giocare a carambola birmana faceva molto etnico, faceva fico,
tra i nerd ovviamente. Comunque. La carambola birmana, o bigliardino
yememita veniva da quei posti lì, tutte quelle cazzo di regioni di
affamati figli di affamati, che non mangiano le vacche perché sono sacre
e fanno figli dagli occhi bellissimi, sopratutto le bambine, dalla pelle
olivastra, e predicano l'ascetismo e la reincarnazione mettendo via i
soldi per l'atomica che non si sa mai.
"Attorno all'india" sintetizzai io.
"Attorno" confermò il jonathan proseguendo la sua ricca dissertazione.
La carambola birmana si poteva giocare in due o in quattro, non in tre,
non meno di due e non più di quattro. Ci si metteva attorno ad un
tavolo, il tavolo da gioco, che aveva certe dimensioni, di tot
centimetri per tot centimetri, jonathan fu molto esaustivo. Nel centro
della tavola si disponevano le pedine, che erano bianche e nere, per
tradizione binaria, e si aggiustavano perché fossero a forma di rosa
stilizzata e nel centro di tutte le pedine bianche e nere si metteva la
pedina rossa.
"Uh, quale pedina rossa?"
"C'è anche una pedina rossa" disse jonathan scocciato delle mie
interruzioni.
"Tu hai detto bianche e nere"
"Bianche nere e una rossa, cazzo bonaventura sei uno scassaminchia!"
esplose il gaitano, in un tripudio di cazzi immaginari.
"Va bene, va bene, bianche rosse e nere" feci io accondiscendente.
"No -precisò subito jonathan- bianche, nere e una, solo una rossa", che
infatti andava messa nel mezzo di tutte le altre pedine.
"Perché solo una rossa?" chiesi con aria innocente, il mio scopo era in
effetti rompergli tanto la sua amata minchia per farlo desistere dal suo
entusiasta desiderio di vangelizzazione, cui io proprio non tenevo, la
mia memoria è limitata, me ne rendo conto, e se inizio a ricordarmi cose
tipo le regole della carambola birmana, prima o poi inizierò a
dimenticare cose molto più importanti, sono solo un essere umano, ho
solo una vita in dono, chiamiamolo dono, e vorrei crepare senza che
dentro al mio corpo riposassero in eterno le regole della carambola
birmana, non chiedo tanto, come quell'imperatore cinese che disse cazzo
ragazzi quando muoio voglio qualche centinaio di statue di terracotta a
difendermi, altezza naturale e quelli, i cinesi, a costruirle davvero
centinaia di statue di terracotta, forse per tramandare a imperitura
memoria che testa di cazzo fosse il loro imperatore che voleva far
difendere la polveretta di cui era fatto con dei pezzi di terra cotta in
forno, dicevo, così come l'imperatore e i suoi automi, così io voglio
crepare *senza* le regole della carambola birmana dentro di me, ho paura
che il corpo faticherebbe la sua decomposizione e l'anima la sua
transumanazione con tutta la porcheria dell'uomo a sedimentare dentro di
me, ecco niente di più.
"Perché ce ne sta solo una" disse gaitano trattenendo l'ira che gli
arrossava la faccia. "Perché se apri la scatoletta delle pedine, ce ne
stanno di nere e di bianche, e una, solo una, rossa" aggiunse, e mentre
lo diceva mimava nervosamente il gesto di una persona che prende
qualcosa e la apre e tira fuori delle piccole cose e le getta per terra.
Nel volto gli brillava come un esplosivo il dubbio che lo stessi
prendendo per il culo, e quindi mi guardava fisso negli occhi, come se
dagli occhi potessero partire degli spiritelli a dirgli, gaitano,
gaitano, guarda che il bonaventura ti sta prendendo per il culo,
gaitano, gaitano, che bella immagine. E quindi camminava di sbieco, come
i granchi, dando un'occhiata al corridoio, ai ragazzi che vagolavano
lenti a passi strascicati, e un'occhiata a me, ai miei occhi che -lungi
da essere specchi di verità- si atteggiavano ad un candore e una
innocenza che è sconosciuta per natura ad un essere uscito da in mezzo
alle gambe di una donna urlante, in tripudi di mucose e slabbri di
sangue rappreso.
Io restai zitto, cercavo di risparmiare. Non riuscivo più a parlare,
ogni volta che interrompevo il gaitano, una macchia biancastra mi
spuntava all'angolo della bocca: saliva. Avevo la bocca impastata e un
gusto di marciume, di carne rimasta infilata tra dente e dente che si
deteriora oltre la data di scadenza, la mia bocca ormai era una vagina
batterica in piena ridondanza riproduttiva, sentivo vescichette sulla
lingua, uno strato di unto sopra i denti, ma non dico unto che olia
eventuali meccanismi, parlo di un unto animale che frigge e bolleggia
per scaricare una miriade di uova acide in cui microscopici agenti
monocellulari vibrano inconsultamente aspettando l'attimo giusto per
sputarsi contro la mia carne con bocche cieche pronte a masticare una
propria tana, in cui spermare furiosamente una progenie gengivale. Ormai
desideravo fisicamente quella dannata bottiglia d'acqua mineralizzata
senza bollicine, la vedevo quasi a mezz'aria, comparire come una dama
lussureggiante, una sorta di sacro graal che mi avrebbe dato un ristoro
eterno dai mali del mondo, una purificazione a lungo termine, un
rinnovamento dell'anima, la versione new age dell'acqua panna.
Jonathan, quando fu ben sicuro che non avevo alcuna intenzione di
parlare ulteriormente, riprese la sua verbosa spiegazione che finsi di
ascoltare, dando dei colpi di collo di tanto in tanto a significare
assenso. Eppure qualcuna delle sue paroline si infilò -non desiderata-
dentro alla mia testolina, prendendosi un po' di spazio, ci avrei
scommesso, l'uomo per quanto refrattario alle umane vicende è curioso
per natura, e quindi anche quando scollega portentosamente il cervello,
qualcosa rimane comunque ad ascoltare, un processo che pare non
killabile, e quindi alla fine sapevo che in questo gioco c'era anche una
cosa chiamata stricker e che questo stricker altro non era che una palla
da bigliardo tagliata a fette, una delle fette voglio dire, e che questo
stricker si pigliava a miccellate, dove per miccellate intendo quando si
mette il dito medio, o indice, sopra al pollice facendo tensione e poi
lo si molla all'improvviso, si fa per dire è un improvviso calcolato al
decimo di secondo, e l'indice e il medio di cui sopra, facendo molla
meccanica con la propria stessa struttura, beccano con la punta lo
stricker di cui sopra facendolo scivolare sull'asse del tavolo da gioco,
opportunamente cosparso di fecola di patate tedesca.
"Fecola?" sussurrai tenendomi le dita agli angoli della bocca.
"Fecola bonaventura, fecola" e mi spiegò che la fecola di patate era il
miglior modo per far scivolare bene lo stricker sopra al tavolo di
legno, e che quella tedesca, la fecola tedesca, era la più impalpabile
fecola conosciuta, la importavano di nascosto direttamente dalla
germania con grandi rischi.
"Uh, è proibito?"
"No, ma è identica alla cocaina, tutte le volte che passiamo il confine
tedesco ci sventrano tutti i sacchi e finiamo regolarmente una settimana
a fare controlli chimici e controanalisi, e poi quando ci rilasciano con
grandi scuse è troppo tardi, la fecola sventrata si è inumidita per il
triste clima germanico, ed è diventata una stopposa colonia di muffe" mi
spiegò con voce vivace il gaitano, questa cosa lo divertiva molto, ma
insieme lo addolorava, povera fecola tedesca, dannata burocrazia.
Comunque, continuò impietoso dopo essersi titillato il peletto immerso,
diciamo così, nello stagno del neo a fianco del labbro, in ogni caso si
danno queste micellate allo stricker che cozza contro le pedine,
spandendole per il tavolo di gioco. Ad ogni angolo del tavolo di gioco
c'è un buco e bisogna far cascare le pedine del proprio colore dentro,
se si sbaglia e la pedina non cade, si passa il turno. Vince chi fa
cascare tutte le pedine del proprio colore dentro ai buchi.
Rimasi in silenzio, guardando i miei passi che si avvicendavano l'uno
successivo all'altro, perché sapevo che adesso il volto di jonathan era
girato verso di me, aspettando la mia domanda, perché gaitano era fatto
così ti diceva nove cose su dieci, per vedere se eri stato a sentirlo, e
tu eri quasi costretto a chiedergli la decima mancante, così adesso mi
aveva enucleato tutta la filosofia spicciola della carambola birmana
senza dirmi a cosa servisse quella dannata pedina rossa, e adesso
fibrillava in attesa della mia voce, per darmi la stoccata finale e
compiacersi del fatto che era riuscito ad interessarmi alla
regolamentazione internazionale del bigliardino yememita. Ma io non gli
avrei dato quella soddisfazione, nonostante rosolassi nella curiosità di
sapere come si inserisse la pedina rossa nel traffico binario di copi di
dita e di rimbalzi in buca.
"Il bigliardo dei poveri" dissi invece dando un finto colpo di tosse.
Gaitano accusò il colpo, fece uno scarto di lato, come se gli avessi
dato un cazzotto e, tra sé e sé, biascicò qualcosa in lingua oceanica,
qualcosa che finiva in -stard, e non poteva essere standard, perché ha
differente desidenza, benché simile, oh paolina borghese fossi stata lì
con me quante cose avresti potuto insegnarmi, altroché carambola
birmana!
Durante tutto il resto del nostro viaggio attraverso la boston
university, jonathan si chiuse in un silenzio gravido di ripicche e di
vendette. Era fatto così, anche durante il nostro corso di ecologia
informatica, o etica, dovrei andare a rivedere il diplomino. All'epoca
c'erano diverse correnti di pensiero relativamente alla programmazione,
abbastanza marcate. La prima corrente era quella detta della "ecologia
software" ed era quella che portava avanti il nostro docente, un
tredicenne americano in vacanza studi a riccione che per mantenersi
faceva corsi zazen applicati all'informatica di base, il cocco della
gestrice di un ristorante di kebab macrobiotici, che annualmente
organizzava gite in agriturismi e corsi dei più strampalati argomenti,
come appunto quello sull'ecologia software o quello su una nuova
relligione new age, fondata sul vangelo di tommaso copto e sui tantra
buddisti, o una cosa del genere, quello lo avevo saltato. L'americano
comunque, con il suo italiano strascicato, ci parlava con tono serio
della sua visione della ecologia software che, riassunta in poche righe,
affermava che il programmatore deve comportarsi nei confronti del
proprio codice così come un produttore si dovrebbe comportare nei
confronti del suo prodotto: quindi niente codice ridondante, nessuna
scoria di programmazione. Se un codice poteva essere scritto in dieci
righe, andava scritto in dieci righe e non in cento, e studiandoci bene
anche quelle dieci righe potevano essere pulite per presentare un codice
ancora più raffinato di otto o di sette righe. Magari -ammetteva lo
yankee- tutto questo andava a discapito della comprensibilità del codice
stesso, che diventava una compressione annidata di sofismi di
programmazione, ma alla fine da un tale codice si sarebbe prodotto un
eseguibile (volgarmente detto dalla plebaglia "un programma" o "una
applicazione") più snello e più veloce rispetto ad una programmazione
logorroica e pigra. Il codice era tutto, ed andava rispettato e rifinito
come si cura una pianta o come pulisce una casa.
Secondo alcuni allievi del corso questa era una cazzata, e portavano
avanti una seconda corrente per la quale al centro di tutto non c'è il
codice, ma il programmatore, e che il codice deve essere chiaro e
semplice da leggere per colui che ci lavora, ovvero il programmatore. Un
codice incomprensibile di dieci righe doveva essere commentato e
semplificato, fino a farne un codice di cento righe, ma cento righe
nelle quali il programmatore poteva mettere le mani velocemente senza
diventare pazzo a capire preziosi algoritmi scritti da chissà chi. Anche
perché alla fine il compilatore era capacissimo di ottimizzare il codice
che trasformava in eseguibile, o -al contrario- di spantegare in
megabyte il raffinato ed inutile codice degli ecologi del software.
Nella terza corrente c'ero io e due o tre belle ragazze padovane, che
portavamo avanti la tesi che al centro di tutto c 'è l'utente, e
l'utente è un essere mortale ed ignorante che di solito non sa usare un
computer, quindi l'importante non era l'ottimizzazione del codice, né la
sua praticità di programmazione, ma al contrario la sua vendetta nei
confronti di un utente cretino che non avrebbe mai apprezzato il
silenzioso lavoro del programmatore, usando programmi copiati
illegalmente e passando come un deficente al nuovissimo software con più
funzioni inutilizzabili, che lo avrebbero costretto a frequenti
aggiornamenti software e hardware, aiutando peraltro l'economia
mondiale. Il programmatore doveva fare in quattro e quattr'otto il suo
software del cazzo, utilizzando il massimo di risorse disponibili,
spandendolo come un gas nello spazio dell'hard disk, controllando che in
alcune situazioni particolari funzionasse, e poi doveva uscire e andare
a farsi un bagno all'unica spiaggia libera di riccione, e infatti io e
le ragazze padovane passammo buona parte delle lezioni in spiaggia a
fare le parole crociate e a discutere di morfologia del corpo, alcune
parti del mio corpo sono morfologiche, quanto amore c'è in particolari
pezzi di carne.
Ovviamente il gaitano aveva subito abbracciato la prima corrente,
affascinato dalle moine dell'imberbe ragazzino americano, e dalle
pappette insapori che la bella adele, la proprietaria del kebab
macrobiotico, infilava in piadine romagnole, spacciandole come cucina
etnica. E già allora, quando il gaitano prendeva i suoi libri di testo e
si infilava nella classe e io e le belle ragazze padovane lo salutavamo
dalla finestra accendendo la mitica due cavalli gialla, ecco, già da
allora gaitano rimuginava dentro di sé vendette apocalittiche sotto cui
sommergerci, lui che partecipava pure al corso sul vangelo zazen, la
roba di tomaso copto.
Così non ebbi modo di sapere altro sul fantastico gioco del carrom,
fintantoché non arrivammo in una ampia sala immersa nella penombra,
stipata di tavolini delle stesse dimensioni della tavola di gioco della
carambola descrittami dal jonathan, a cui erano agganciate lampade
metalliche che mandavano la loro luce gialla ad illuminare le pedine
messe a rosa al centro di ogni tavolo. Gli studenti si erano riuniti in
capanneli e parlavano a bassa voce, buttando occhiate oblique sui nuovi
arrivati, occhiate che da oblique divennero trascendentali all'arrivo
della coppia alle nostre spalle, il magnifico rettore e l'addetto alla
sicurezza. Subito i gruppi di ragazzi si sciolsero, come se ci esistesse
qualche regolamento interno che proibisse il chiacchericcio
pre-agonistico.
Nel silenzio che si era creato, il magnifico rettore si fece strada tra
i tavoli del carrom, con uno sguardo insieme solenne e ieratico, quasi
fosse un sacerdote o un imprenditore, muovendosi come a mezz'aria fino a
raggiungere una pedana posta all'angolo opposto a quello dove eravamo
entrati. Lì stava un microfono fico, una lunga asta che terminava in un
cilindretto metallico color argento, a cui si aggrappò il magnifico
rettore, iniziando a masticare con la bocca senza dire niente.
"E' spento, imbecille" sussurrò al mio fianco jonathas lanciandosi verso
il rettore che non si era accorto di nulla e continuava il suo afono
discorso, facendo pure ampi gesti con le braccia, di vago stile
titanico. Sui volti degli allievi non apparve il sorrisino ironico che
mi aspettavo, bensì un vago orrore per quello che sarebbe successo nel
momento in cui il rettore si fosse reso conto della triste figura che
stava facendo, evidentemente al rettore mancava il senso dell'umorismo.
Jonathan ballonzolava ripercorrendo la strada poc'anzi calcata dal
magnifico rettore che si era accorto -adesso- dello slancio gaitanesco,
e anche del clinton prefiliaco che con uno tuffo si era buttato pure lui
all'inseguimento del collega mediterraneo, e le sopracciglia del
magnifico rettore si erano incurvate, come a fulminare quei due guitti
che stavano, con il loro spostamento di corpi, facendo perdere di
efficacia al suo inascoltabile discorso. E -alzando ancora lo sguardo-
il magnifico rettore accentuò l'inarcatura cigliare, perché sul fondo
della stanza, speculare a lui, c'era il buon vecchio bonaventura
sottoscritto che stava ridendo ad ampie mandate giugulari, chiudendo
leggermente gli occhi per le lacrimette che dondolando scendevano verso
la bocca.
Jonathan, con un saltello fu accanto al magnifico rettore e, senza dire
nulla, prese in mano il microfono fico e si mise a lavorarci attorno,
fintantoché un fischio cavallino ci fece capire che il microfono aveva
ritrovato la sua capacità mediatica. Nel medesimo istante uno scroscio
terribile ci fece voltare la testa verso un viluppo di carni yankee e
legni di fattura indiana: il clintoniano addetto alla sicurezza aveva
inavvertitamente infilato un piede nel filo che univa una delle lampade
ad una ciabatta elettrica posata per terra, ed aveva concluso la sua
claudicante folle corsa rovesciandosi addosso ad una tavolo di gioco
della carambola birmava, rovinando a terra e trascinandosela dietro, con
strascico di rimbalzi di pedine bianche e nere e probabilmente anche una
rossa.
Il magnifico rettore non disse nulla, rimase a fissare quell'accrocchio
di uomo e di tavolo e scuotè la testa, con disappunto, e -funzionando
adesso il microfono- il suo diappunto si moltiplicò ed echeggiò per la
sala, senza suono: tale è il potere di un media quando funziona anche
quando non fai niente, il tuo niente arriva a tutti quelli in ascolto.
Jonathan nel frattempo era sceso dalla piccola pedana, ed era tornato
sui suoi passi, evitando con un largo giro il clinton sofferente che,
rialzatosi a fatica, guardava ora il magnifico rettore, ora la tavola
sfondata del carrom, ora le pedine spantegate per tutta la sala, senza
sapere cosa dire e cosa fare.
"Well" disse il magnifico rettore, e ricominciò il suo discorso, come se
non fosse successo nulla, e tutti i ragazzi tornarono a muovere la testa
verso di lui ascoltando con attenzione.
Gaitano era tornato al mio fianco, sbuffando ed ansimando per la corsa,
e guardava il magnifico rettore parlare, la sua voce echeggiava tutto
intorno a noi.
Toccai con leggerezza la spalla di jonathan e gli chiesi cosa stesse
dicendo il rettore.
"Cazzate" sintetizzò il collega partenopeo. Cazzate su cazzate: stava
intortando i ragazzini facendogli credere che il crane fosse morto di
morte naturale, nel sonno, senza colpo patire. E una lacrimuccia
spuntava quasi dall'occhio a doppio taglio del rettore, che subito si
affrettava a tergere con un fazzoletto di seta cotta. E l'ultimo
desiderio del crane, in punto di morte, era stato ovviamente che la sua
morte non fermasse il torneo di carambola birmana, che anima nobile, un
uomo che ha dedicato la sua vita alla programmazione di giochi per
computer, comprende meglio degli altri l'importanza di un torneo di
carambola birmana, sa quanto è importante per gli studenti della boston
university, per l'onore americano, per la bandiera. Vogliamo forse (sono
parole del rettore) vogliamo forse che l'onore della nostra patria sia
infangato da una sconfitta per abbandono? Si può essere americani e
nello stesso tempo abbandonare? Il rettore scosse la testa. No, no, no.
Quando si è in gioco bisogna andare fino in fondo, se si è cominciata
una partita bisogna giocarla fino alla vittoria, anche se mentre si
gioca ci si rende conto che abbiamo sbagliato campo, anche se nel mezzo
della sfida ci si rende conto che noi siamo in ventuno con ventuno
pesanti mazze da hockey e i nostri avversari sono in sei con le
braghette corte e un perplesso pallone bianco da pallavolo, bisogna
andargli addosso e batterli, perché il gioco -a questo punto- non
permette abbandoni, perché la boston university ha una sua tradizione di
vittoria a cui non può rinunciare.
Il gaitano traduceva a bassa voce man mano che il rettore proseguiva la
sua filippica, e io mi rendevo conto che non erano cazzate, era la pura
verità, la boston university non poteva abbandonare il torneo di
carambola birmana, era suo dovere vincerlo.
Il rettore andò avanti ancora un po' e poi tutti partirono in un grosso
applauso, il rettore disse ancora una cosa e l'applauso di trasformò in
un gemito.
"Che è successo?" chiesi curioso.
"Il rettore ha detto che non ci sarà eliminazione diretta. Si giocherà
all' italiana"
"Italiana? Italiana cioé?"
Jonathan si girò verso di me e disse che tutti dovranno giocare contro
tutti e si farà media del punteggio totale, si andrà avanti tutta la
sera, tutta la notte, probabilmente si continuerà fino alla mattina
dopo, e se non basterà nel pomeriggio. Nessuno potrà uscire dalla sala
finché il torneo non sarà finito.
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