Thursday, June 26, 2003
boston university (II parte)
Post di Fabrizio Venerandi sul newsgroup alt.fan.fratellibros
Main topics: OT
Author: Fabrizio Venerandi
Ecco che harry pitfall diventava il simbolo stesso della continua
ricerca storica, dell'esigenza di scoprire, di mettere tutto per
iscritto, di mappare ogni possibile passaggio per avere alla fine
un'idea completa e precisa di quello che è stato e non è più, ma che
ancora comunica con noi con le sue opere che hanno resistito
all'ingiuria del tempo.
Tutto questo era david crane, lo stesso che in gioventù aveva fatto il
gioco di una gallina che deve attraversare un'autostrada senza essere
investita da camion e macchine: che ricchezza inventiva.
Finalmente l'avrei conosciuto, pensai, grattandomi nervosamente il neo
che mi sta sul naso, come una specie di piercing tumorale, e intanto ero
arrivato di fronte alla Boston University.
C'era un parcheggio interno, riservato ai docenti e agli ospiti e io ero
un ospite, cazzo.
La Boston University era un grosso complesso a forma di parallelepipedo,
con due tronconi laterali che avanzavano rispetto al corpo centrale,
come a voler abbracciare un misero parco alberato percorso da vialetti
mattonati. L'ingresso però era stato spostato dalla parte opposta, che
dava sulla strada, una bella avenue di cui non ricordo il nome.
All'interno dell'università camminavano placidi i giovani rampolli
americani, con un passo tranquillo, preparando i loro test e correndo di
tanto in tanto nelle aule di informatica per cazzeggiare un po' con il
mondo globale sottoposto alla loro sete di libertà. C'era un'atmosfera
di grande serenità, fuori c'era il sole, ma non come se adesso c'è e
domani chissà, piuttosto come se qualcuno ce lo avesse dipinto a forza e
adesso quel sole da lì non se ne sarebbe andato più via, e questo i
giovani americani lo capivano e sorridevano guardando verso il filo
dell'orizzonte.
C'erano molte ragazze con le braghette corte e blù, un blu intensissimo,
sembrava di essere in giappone, i colori erano tutti molto accesi, e in
alto ronzavano sbuffando aria fredda grossi condizionatori d'aria, come
scarafaggi rintanati in un angolo della stanza a scoreggiare fuori
dall'università il sudore caldo dei giovani americani, che invece
stavano al fresco a guardare il sole inchiavardato nel cielo di cui sopra.
Io giravo in pantaloncini altezza ginocchio color cachi e maglietta alla
pelle bianca con l'icona di un cane bianco a macchie blu con la lingua a
penzoloni e sopra la testa del cane c'era una lampadina accesa. Mi
sentivo irresistibile, anche se le occhiate di questi americani
passavano sul mio corpo come se la mia carne europea fosse stata troppo
magra per i loro gusti, tutto pelle e ossa.
Quello che mi colpiva di questi ragazzi era che erano grossi. Alti,
larghi con tutte le aperture del loro corpo enormi, le orecchie, la
bocca, le narici, sembravano piccoli giganti lenti, con quelle palle al
posto degli occhi, con quei chili fuori posto portati con la sicurezza
che non faranno mai troppo male quei chiletti in più: quando si marcisce
si marcisce allo stesso modo, nella bara intendo.
Erano grossi e mi sembrava di essere finito in un telefilm americano,
non era una bella impressione, avevo paura che ad un certo punto
spuntasse fuori un poliziotto anni '80 e iniziasse a sparare e subito si
finisse su di una macchina in un inseguimento per le strade di
philadelphia: tutto era così televisivo, e quest'impressione era
accentuata dalle macchinette della coca-cola, ce ne era una ogni dieci
metri, che sboccava lattine rosseggianti come fossero uova d'oro.
A questo punto, mentre vagavo con il mio foglietto in mano su cui erano
stampigliate le indicazioni per trovare lo studio del mio mecenate, ecco
dal fondo del lungo corridoio che andavo percorrendo, sbucare una
figurina minuta e sorridente, ma di un tipo diverso di sorriso rispetto
a quello yankee fin'ora descritto, era un sorriso solare e ironico nello
stesso tempo, direi quasi sardonico se sapessi cosa vuole dire.
Era un tipino basso, dal cranio quasi pelato incorniciato da una sorta
di aureola di capelli biancastri. Portava una maglietta a maniche corte
marrone e blù, e un paio di braghette color cachi, identiche alle mie.
Gli occhi erano penetranti e furbetti, e le labbra strette a voler quasi
trattenere le parole, prima di mollarle per aria. Camminava in mezzo ai
gruppetti dei ragazzi biondi, e delle ragazze dalle gonne tinteggiate,
come se fosse un trasferello calcato a forza sopra una foto di
tutt'altro genere, tipo se uno facesse il trasferello di goldrake sopra
una foto della cappella sistina, dopo il restauro.
"Jonathan" esclamai sorridendo e lui ribadì il suo sorriso e affrettò il
passo nella mia direzione, stendendo il suo tozzo braccio e aprendo la
sua capace mano per stringere la mia.
"Bonaventura!" disse lui. "How are you?" mi chiese.
Iniziai a scuotere la testa. "Jonathan, non capisco l'inglese" gli
ricordai alzando le spalle.
Il mio vecchio amico allora disse come minchia andò il viaggio?, circa
una cosa del genere, adesso non ricordo bene la frase esatta, ricordo
che c'era la parola minchia che faceva da perno a tutta un'altra serie
di parole che ruotavano attorno, come un nuovo sistema copernicano, di
natura priapica.
"Bene" dissi io, e posai per terra la borsa che conteneva i preziosi
appunti per la mia relazione.
Jonathan iniziò a parlami nel suo stretto idioma
calabro-siculo-napoletano della conferenza, di come stavano andando le
cose, del buffet (ah il buffet!), e della presentazione in powerpoint
che mandava in palle il sistema operativo del signor gates.
Jonathan, in verità, faceva all'anagrafe gaetano scannapuozzi, anzi:
gaitano con la i, come confessava con orgoglio durante le non frequenti
pizzate di noi ex allievi del liceo informatico-etnico o forse era
etico-telematico, boh, delle lezioni fatte assieme ricordo solo che
sezionavamo spesso ranocchie alla ricerca della ghiandola pineale, e
trovavamo solo e sempre il punto g della ranocchia suddetta che ormai se
lo poteva goder poco, povere bestie.
Che odore quello dei girini lasciati macerare nell'acqua di fiume per
vederli aprirsi come foglie di cipolla, e quella loro ghiandolina nera,
che era la loro morte e quello che li teneva in vita, come potrei mai
dimenticare queste cose? Infatti non le dimentico e ogni tanto tornano a
galla, come i corpi mutanti dei suddetti girini, nei diversi stati di
formazione delle zampe.
"Jonathan, jonathan" dicevo a voce bassa mentre quello continuava il suo
chiassoso parlare, indicandomi con il palmo della mano la strada che -a
passi lenti- stavamo percorrendo.
Mi stava spiegando che questa volta la Boston University aveva fatto le
cose in grande, non aveva badato a spese, tanto i soldi non ce li
metteva lei, il tutto faceva parte di un progetto di finanziamento della
comunità europea.
"Uh. Comunità europea? A philadelphia?"
Jonathan si girò verso di me e fece un gesto con la mano, ponendola come
se fosse un polipetto, con tutte le zampe verso il basso e poi fece
muovere le dita in tondo, stringendo contemporaneamente le labbra a
formare un invisibile bacio. "Umma umma" mi disse, e sorrise complice.
Mi spiegò poi che il finanziamento era stato fatto arrivare non alla
Boston University, ma direttamente alla subappaltata ditta European
Citizen, leader nella progettazione di conferenze, con sede in Romania,
ma operante prevalentemente nel nord-america. Nel consiglio direttivo
della European Citizen c'era lo stesso preside della Boston University,
e questo rendeva la sinergia tra le due istituzioni molto significativa.
Tossii.
"Credo che neppure la romania faccia parte della comunità europea"
sussurrai.
"Il domicilio fiscale è a Berlino" aggiunse a bassa voce il mio
virgilio, socchiudendo gli occhi.
Virgilio è un po' troppo, diciamo brunetto latini.
Tacqui e continuai a seguirlo, ascoltando le sue parole che descrivevano
il tripudio di eurodollari spesi in festoni di carta colorata a forma di
drago cinese, e parcelle di liberi professionisti come il sottoscritto.
"Il tuo intervento è tra i più attesi" confidò ancora, sorridendo e mi
chiese se era tutto pronto, e io diedi una pacca affettuosa alla mia
valigetta e dissi che tutto era pronto, e ripetei il titolo del mio
intervento, perché, perché i computer, da macchine di meraviglia,
eccetera eccetera e a queste mie parole il suddetto sorriso del jonathan
diventò il viso sbiancato del gaitano che dice, che minchia, scherzi?
"Uh, no, perché?"
Jonathan/gaitano si passò una mano sulla faccia, per stropicciarsi la
pelle del viso e poi disse che era quando.
"Quando" ripetei io senza capire.
"Quando i computer, da meravigliosi oggetti di meraviglia, iniziarono a
cagare così tanto il cazzo? Quando. Non perché. Minchia, ci interessa
sapere pure l'anno preciso. Non perché. Qua sono tutti informatici,
quando, anche l'anno si aspettano, minchia, e tu mi sei andato fuori
tema? Guarda che questi sono dei professionisti, questi ti mangiano
vivo, qui è peggio che a reggio emilia!"
Iniziai a guardare la punta delle mie scarpe, erano sandali. Per
risparmiare avevo fatto tradurre la lettera della Boston University, non
da un traduttore a pagamento, bensì dalla mia nipotina paolina, che
faceva terza media e di inglese conosceva dieci parole di uso comune,
tre pronomi personali, due avverbi di luogo, e i testi di tre canzoni
dei beatles, tra cui yellow submarine. Di queste ultime però conosceva
piuttosto la musica, quando le cantava faceva con la bocca la la la, la
la la la, per un po' di volte, e poi urlava we are living in a yellow
submarine, a yellow submarine, a yellow submarine (x2) (ad libitum).
Tra le altre cose, mentre lei provava a tradurre la lettera della Boston
University, avevo fatto di tutto per distrarla, riuscendoci, e
ricavandone pure un profitto di tutt'altro genere, dolce paolina borghese.
"Temo di aver tradotto erroneamente il titolo della mia relazione"
confessai rialzando la testa verso il cranio lucido del mio compagno.
"Ma non preoccuparti: il quinto paragrafo della mia tesi trattava
proprio del 'quando' tutto ciò avvenne. Mi basterà sviluppare quel
punto" dissi con sicurezza dando una pacca sulla spalla del buon
jonathan, che mandò un bagliore del volto, un sorriso insincero.
La mia relazione-in verità- aveva solo quattro paragrafi.
E dovevo ancora finire il quarto e passare tutto al controllo ortografico.
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